Intanto diciamo “mestiere” e non professione. Perché in effetti si usano dei “ferri” non diversamente da un artigiano che usa i suoi attrezzi.
Il primo è la memoria.
Mastroianni diceva che spesso gli capitava di essere convocato d’urgenza per un provino, il che significava avere pochissimo tempo per mandare a memoria un testo che corto non era mai.
Il secondo ferro del mestiere dell’attore è la mimica.
E qui entra in gioco il potere della maschera. Un attore non può fare a meno di mimica e gestualità per strutturare il personaggio. Strutturare, appunto. Costruire un personaggio convincente dove anche un tic può avere una sua specifica funzione. La frase “entrare nel personaggio” è emblematica in tal senso, l’attore deve spogliarsi della sua identità per “abitare” nella psiche di un altro. In poche parole, un transfert.
La cosa più bella che un attore possa dire è che sulla scena dimentica di essere sé stesso. E, a torto, sembra che ciò possa avvenire con facilità. In certe occasioni è vero, quando ad esempio si fanno recitare i bambini. Il bambino, protetto dalla sua identità ancora fresca di data e dalla sua innocenza, non fa fatica a immergersi nel personaggio. E loro adorano l’invenzione. Pensateci, i bambini difficilmente recitano male.
Come non ricordare i nove anni di Enzo Stajola in Ladri di biciclette?
L’attore adulto invece deve spogliarsi delle sue difese e delle sue rigidità per “offrirsi” all’altro da sé. E qui entra in atto il terzo ferro, il controllo.
L’attore, una volta calatosi nel personaggio (“calarsi nella parte”, nel senso di abitare nel profondo di un altro essere se pure immaginario) deve restare vigile, deve essere capace di controllare emotivamente il suo doppio. Difficilmente casualità e improvvisazione ci regalano una grande performance.
Melania Baccaro
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