L’effige di Elvis è la più diffusa al mondo dopo quella di Topolino e vorrei sapere se fu vittima o carnefice e se scrivere su di lui significa gettare un sasso in uno stagno dove cerchi concentrici si allargano fino a far riaffiorare un cadavere senza pace. La droga? Risposta troppo facile.
Mick Jagger oggi sarebbe polvere di mummia e invece ancora si contorce quasi afono sulla scena. Nel ‘70 io avevo vent’anni e avrei potuto conoscere il Re dal vero, ma non è successo così. Lo abbordo adesso in modo curioso: io viva, lui decisamente defunto. Io figlia dei Beatles, lui progenitore di quei miei adorati genitori musicali. Allora ascoltavo con tiepido interesse i suoi dischi preferendo i Fab Four allo scalmanare dei suoi (bellissimi) fianchi e ai i gorgheggi un po’ napoletani delle sue smielate canzoni. Me lo ricordo sempre in bilico fra lo svitato pericoloso e il gentiluomo sudista.
A volte turpe nel suo esagerato erotismo a volte compito ed azzimato corteggiatore ancien regime. Forzò virtualmente la serratura di Graceland entrando di soppiatto nella sua reggia esagerata. Percorro scale, schiudo porte imbottite, guardo con bonaria perplessità un pianoforte che sembra sgocciolare oro massiccio su una moquette in stile bordello di New Orleans. So che nelle sue cucine il pesce era proibito. E tutto mi fa pensare a uno di quei mesti e romantici vampiri di Anne Rice, peraltro illustre visitatrice di Graceland. Elvis viveva realmente da vampiro dormendo di giorno e vegliando di notte e Linda Thompson (una delle sue compagne più longeve) precisa che lo ha piantato nel terrore di mettere al mondo tanti piccoli Elvis fotofobici. The King eredita la bella figura da nonno James così come il maniacale desiderio di abiti costosi.
Alla sua morte nei sotterranei di Graceland troveranno un guardaroba che non ha nulla da invidiare ai depositi di una grande sartoria teatrale. Quella scioltezza, quella sua andatura dinoccolata pochi anni dopo troveranno in un altro James il suo omologo non meno osannato di lui, l’ineguagliabile 007. Le fan erano per Elvis un problema, la loro incontenibile voglia di toccarlo sfiorava la pazzia. Così l’uscita di scena di Elvis molto assomigliava a una fuga premeditata. La frase che si lanciava al pubblico al fine di raffreddare i bollenti spiriti era “Elvis left the building”. Vale a dire: tornate sereni a casa perché il Re è già andato via. Anni dopo verrà fatto un film su di lui che ha per titolo quella frase. E questa sua psicosi dell’aggressione creerà il presupposto per assoldare un nutrito gruppo di bravacci americani, i suoi tanto discussi bodyguard denominati Memphis Mafia.
Ma soffermiamoci su un’altra uscita, l’uscita di scuola. Elvis ragazzino si vestiva come i neri di Beale Street a Memphis. I Presley erano talmente poveri che non potevano che vivere in un quartiere di neri. Si pettinava in modo poco ortodosso se consideriamo che i maschi americani avevano il taglio a spazzola. Lo sbarbatello adottava invece il taglio ducktile (culo di papera) che furoreggiava tra i camionisti. Insomma Elvis era un diverso cocciuto che affila sulla chitarra le armi della vendetta e cova un ribaltamento della sorte. Uno che si guadagnerà duramente il buonumore in un mondo che lo aveva accolto non proprio a braccia aperte. E bastò una chitarra a cambiare il corso del suo destino. Nel 1956 sua madre Gladys lavora sulle macchine da cucire della Garment e il marito, Vernon il Taciturno, stenta a mantenere un posto fisso. Il ragazzo accarezza il sogno di cantare senza farne un’ossessione ,spera di entrare in un quartetto vocale, ma senza sgomitare. Capita alla Sun Records per incidere un demo che la leggenda dice fosse un regalo per sua madre. Gira instancabilmente con il camion con cui lavora. Sam Phillips, proprietario della Sun, gli concede un’ occasione che non sembra sortire grandi risultati. Gli affianca un basso e una chitarra che gli vanno dietro. Si crea spontaneamente un’armonia, ma Phillips continua a non fare salti di gioia .
Poi Elvis, in un momento di pausa, distorce a bella posta un vecchio pezzo blues , That’s all right (mama) e in testa a Phillips si accende non una lampadina, ma una turbina: lo sbarbatello ha cantato come se intorno non avesse niente e nessuno, ha cantato con l’anima, col cuore e con una incredibile voce potenziata e arricchita dalla genialità del suo arrangiamento. E’ fatta. Un pezzo del 1946 che nessun suo coetaneo avrebbe ascoltato e meno che mai cantato diventa un cadavere su cui il Re attacca un paio di elettrodi e pompa dentro una scossa elettrica a non so quanti watt di potenza. Elvis partorisce un sound che da 67 anni non ha rivali. Nasce il … come definirlo? Il Rock già esiste. Il country anche. Il rockabilly pure. Il be bop e il rhythm and blues ci sono già. Allora lui cosa ha inventato? Semplicemente la fusione esplosiva di tutte queste musiche in un unico genere e in una sola voce. I miracoli avvengono e le coincidenze non esistono. Un attimo prima, un secolo o una vita dopo non sarebbe accaduto nulla: quel giorno, in quella sala, in quel punto dove il grande Bob Dylan si inginocchierà per baciare la “X” che ancora segnala il posto in cui Elvis cantò, si cicatrizza ormai per sempre l’ombelico musicale della nostra era.
Melania Baccaro
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